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“BUENOS AIRES” D Donna - La Repubblica - maggio 2000

scritti pubblicati di Marco Bechis, NUOVA STAMPA Marco Bechis, stampa italiana

Note di viaggio su BUENOS AIRES di Marco Bechis

“Mi sono fatto quindici mila chilometri per  arrivare  in una città che  mi sembra  di conoscere “. Diceva nel 1990 un produttore italiano che si guardava in giro in un angolo del centro  di Buenos Aires. Buenos Aires non ha niente di particolarmente strano,  di esotico.. Buenos Aires non ha niente di particolarmente strano, di esotico. I fotografi si ostinano a scovare il folcklore, ma non riescono quasi mai a coglierene l’essenza: una città con influenze di molte altre città, che però non assomiglia a nessuna in particolare. Borges diceva che in Europa gli italiani vivono di fianco ai francesi che a loro volta vivono vicino agli spagnoli, agli inglesi, ai tedeschi mentre la vera Europa era l’ Argentina perché le diverse razze lì si sono mescolate. Salvo poi essere stato smentito da che cosa è successo sotto i suoi piedi negli anni settanta, quel bel crogiuolo di razze europee ha fatto scomparire trentamila connazionali, anche loro rigorosamente mescolati.

 

Quando arrivo all’aereoporto  di Buenos Aires sono subito infastidito dalla lingua porteña. Il porteño, l’abitante del porto di Buenos Aires, è detestato dal resto degli abitanti della nazione e da molti altri paesei sudamericani. Una battuta dice che un porteño va venduto per il prezzo che dice di valere e va comprato per il prezzo che vale. Caustica, ma forse riflette la superficialità con cui si è formata l’identià nazionale in quel paese. Nel 1810 alcuni intellettuali che viaggiavano spesso in Europa si sono messi intorno a un tavolo nell’edificio che oggi è il Cabildo, in Plaza de Mayo e hanno discusso che tipo di stato si poteva inventare. Messe insieme un po’ di idee scopiazzate dall’Europa, hanno fondato la Repubblica  e hanno intrappreso le guerre di indipendenza contro la Spagna e hanno poi ricacciato in mare le flotte inglesi che tentavano di invadere Buenos Aires. Il gorverno nazionale si e’ consolidato, ma il potere era nelle mani di pochi. Ai condottieri che si avventuravano al sud, verso la Patagonia, le autorità dicevano: “galoppa con il tuo cavallo finchè vuoi, fermati e costruisci un recinto:  tutta la terra che hai attraversato, se riesci a difenderla,  è tua”. In quattro e quatrotto, un manipolo di famiglie sono diventate le proprietarie del paese intero. Questa è “l’aristocrazia argentina”: gli Alvear, i Roca, cognomi che oggi sono stampati nelle strade, nelle piazze, nei monumenti, nelle banconote. Omaggio agli sterminatori dei legittimi abitanti di quelle terre. Che erano pochi. Gli Ona, i Patagones, sono alcune delle tribu che sono state sterminate.

A Buenos Aires  ci sono le tracce vicibili dello sterminio del secolo scorso e di quelli più recenti. In fondo alla plaza de Mayo c’e’  palazzo coloniale bianco, dentro a quel palazzo è stata fondata la Repubblica Argentina e al centro della stessa piazza, intorno a un monumento e di fronte alla storica Casa Rosada ci sono disegnati per terra dei fazzoletti bianchi, annodati come a cuffia, intorno alla testa. Ma la testa non c’è, non è stata disegnata. E’ il simbolo delle madri di plaza de mayo che nel 1977 hanno incominciato a marciare intorno a quel monumento, senza paura. Protette dai giornalisti stranieri, molte di loro anche secuestrate, continuano oggi a marciare chiedendo giustizia che non c’è stata.  Ogni giovedì. Vogliono sapere dove sono finiti i 30000 ragazzi scomparsi.

L’avenida Alvear, che soboccia nella piazza della Recoleta dove c’è il cimitero dei potenti. Lì sono seppelliti i capostipiti e i discendenti delle famiglie che si sono appropriate delle terre, c’è anche la tomba di Evita Peron, ignorata dagli argentini. Curioso destrino quello del cadavere di Evita, imbalsamato e custodito dall’imbalsamatore per anni, sembra che si fosse inamorato del corpo inerte, poi trafugatoi dai miliatari nel 1955 e sotterrato anonimamente nel cimitero monumentale di milano dove e’ rimasto soot falso nome fino al 1972. Ci sono state manifestazioni, scontri, sequestri estorsivi per riavere il corpo di Evita, oggi è lì, alla Recoleta e la tomba è sempre deserta. Ogni tanto qualche turista la ritrova.

Avenida Alvear, che ha preso il nome dal Generale Alvear, uno dei più grandi sterminatori di indiani, è la strada degli appartamenti ricchi. Le portinerie in vetro sono grandi come campi da tennis. I portinai sono in realtà poliziotti in borghese, armati. C’è paura. Chi tra di loro invece abita fuori città  perché preferisce il contatto con la natura, ha costruito delle case all’interno dei cosidetti Country Club, zone recintate e protette da torrette in cemento armato con giardie armate 24 ore al giorno. E di fianco a questi complessi monumentali con dentro piscine, cami da tennis, campi da golf, sorgono le bidonville. Ho visitato alcuni di questi Country Club e mi è capitato di vedere i ragazzini ricchi che giocavano in piscina e al di là del recindo di filo spinato, vedere le bidonville dove l’acqua non c’è.

 

In piazza Recoleta forse la cosa più bella  è un albero, un l’ombù, un albero gigantesco e panciuto, che si stende per buona parte della piazza e dove fa piacere rifugiarsi. Di fronte all’ombù c’è un bar famoso, il bar Recoleta. Nel 1975 è stato bruciato da alcune bombe molotov perché ritrovo dell’”oligarchia”. E’ stato subito rinnovato.

I bar sono esclusivamente per stare seduti. Può capitare che qualcuno dica che non ha tempo di prendere il caffè con te, perché ha solo dieci minuti. Andare in un bar vuol dire rimanere intorno ad un caffè per ore, a spegnere le sigarette nel piattino di sotto. I bar sono dappertutto, pieni di camerieri in giacca bianca, sempre con un enorme vassoio e uno straccetto umido per pulire il tavolo. Impeccabili. Sono una razza misteriosa. Non esistono scuole per imparare a fare il cameriere,  tramandano il loro comportamento senza far sapere come. Sono tutti irreprensibili, mai una parola di troppo, spesso molta brillantina. Nei ristoranti, sempre loro. Nos scrivono mai le ordinazioni, ricordano tutto a memoria. Mi sono sempre chisto che sistema mnemonico utilizzassero per riuscire a ricordare esttamente le ordinazioni diverse di una decina di persone intorno a un tavolo, dove gnuno cha chiesto cose diverse e condite in modo speciale. Mai guardano in faccia i clienti, spesso si ha il dubbio che abbiano sentito. Tornano dopo una ventina di minuti con i piatti pero ognuno e lo apppoggiano al posto giusto. Ho chiesto un giorno a uno di loro perché non gua. Evidentemente tramandano anche un sistema mnemonico che risale forse a Simonide. Antico come l’arte della memoria.  Ecco da dove forse Borges si e’ ispirato per il suo famoso racconto ” Funes el memorioso”, la storia di un ragazzino che non poteva fare a meno di ricordare tutto.  Funes  era capace di ricordare la forma di una nuvola vista due anni prima e associarla con la macchia di umidita’ sul tetto di camera sua; per funes un cane visto di fronte era un’altra cosa da un cane visto di profilo; funes non riusciva ad avere idee astratte, non riusciva a pensare cosi’ oppresso dalla sua straordinaria memoria.

 

Durante la preparazione di un mio film, a Buenos Aires nel 1998, camminavo a passo spedito con affianco l’ aiutoregista. Discutevamo di un attore che doveva interpretare il ruolo di un troturatore. Con la coda dell’occhio scorgo attraverso una vetrata, un uomo seduto a un bar che avevo già visto nei rotocalchi: un vero torturatore, amnistiato dalle leggi di Punto final e di Obediencia Debida, un uomo libero per la legge argentina. Senza fermarcii ci siamo guardati il mio aiutoregista ed io, per essere sicuri di aver visto giusto, e dal nostro sguardo abbiamo capito tutti  e due che avevamo visto giusto. Senza fermarmi ho guardato ancora verso la vetrata del bar e con la coda dell’occhio ho scorto l’uomo che beveva l’ultimo sorso del suo caffè con aria soddisfatta era fiero di essere stato riconosciuto, tutto sommato era ancora qualcuno.

 

Il Rio de la Plata, un fiume largo trenta chilometri nel suo punto piu’ amplio, Dall’altra parte c’e’ l’Uruguay. Il rio de la Plata e’ quasi un mare, quasi perche’, pur non vedendosi l’altra sponda, il colore delle sue acque e’ marrone. E’ il delta del fiume Parana’ che nasce in Brasile e sfocia Ma la citta’ di Buenos Aires sembra costruita come se non ci fosse il fiume.  Non si affaccia sull’acqua ma da le spalle all’acqua. Ci si faceva il bagno in quelle acque qualche decennio fa, oggi non e’ piu’ posibile. Per insalubrita’ per molti . Per pochi, e’ impossibile guardare quelle acque senza pensare alle migliaia di cittadini gettati vivi dagli aerei durante la dittatura 1976-82, Prima nel fiume, poi per non far ritornare a riva i corpi,nel mare al largo.

 

All’Hotel Castelar in avenida de Mayo, ho passato un anno e mezzo. Non di seguito, ma nell’arco di tre anni di lavoro.  Nei sotterranei dell’hotel funziona ancora una delle piu’ antiche saune della citta’. Tutto marmo e legno. L’hotel era il piu’ lussuoso dell’avenida de Mayo, quando quella zona, la zona spagnola, era il centro della citta’ . Oggi il centro lussuoso e’ diventata la pacchiana Recoleta, la piazza di fronte alla Recoleta.

In quei sotterranei dove oggi funziona la sauna, negli anni venti c’era un bar. Era il bar dove si riunivano scrittori e intellettuali. Quando Garcia Lorca visito’ Buenos Aires, dormiva in quell’albergo e prendeva il caffe’ in quei sotterranei. La struttura dell’albergo e’ rimasta intatta, tutti i mobili sono stati cambiati nel 1978 in occasione del campionato del mondo 1978. Tutti i mobili liberty con cui erano arredate le stanze sono stati regalati ai dipendenti che li hanno sistemati nei loro magazzini come roba vecchia, e sono stati istallati moderni mobili stile economico. Erano gli anni del delirio consumista e dei desaparecidos. Anche i mobili ci sono andati di mezzo.

I marmi che sono stati usati per decorare l’albergo arrivavano in nave da Carrara. Le navi che arrivavano vuote al porto di Buenos Aires per caricare il grano, avevano bisogno di molto contrappeso per affrontare l’oceano.  Qualcuno ha pensato allora di caricare il marmo come contrappeso, e non pagando il trasporto, diventava conveniente.

 

Poco distante dal Castelar c’e’ un altro bar antichissimo, la Confiteria La Ideal. Costuito negli anni venti rischia ora di essere rinnovato e cancellato. Ha due piani, si suona il tango per i tursti il fine settimana. Ma durante i giorni feriali, di pomeriggio, un’rchestrina al piano di spora suona dei tanghi per ballerini furtivi. Gli orari sono pomeridiani per permettere a chiunque, prima di tornare a casa dopo il lavoro, di farsi un paio di balli  in pace con degli anonimi. Tango clandestino. Naturalmente la trasgressione e’ limitata al ballo.

 

La moglie di uno scomparso, mi racconto’ un giorno che ballo’ a lungo con un uomo maturo. Poi chiaccherarono a lungo, finche’ lei incomincio’ ad avere qualche sospetto: finalmente capi’ che il signore affabile che ballava piuttosto bene, era un ex torturatore in pensione.

 

Plaza San Martin e’ per me il Cavanagh, un edificio stile batman girgio e scrostato e la casa di Borges. Nel 1985 lo visitai con un progetto cinematografico sotto il braccio. Il progetto era la trasposizione di alcuni suoi racconti ambientati nel futuro. Per me il futuro allora era il 2002. Maria Kodama, sua moglie, gli aveva letto il mio testo e quindi lui era preparato. Jorge Luis Borges era cieco ed abitava in un modesto appartamentino, senza alcuna decorazione. Una vecchia governante mi ha fatto sedere in un salotto con un unico mobile che conteneva una enciclopedia Britannica. La governante lo condusse in  salotto tiraandolo non dalla mano bensi’ dal fondo della manica, poi gliporto’ un the al llatte che strabordo’ quando lo appoggio’ sul tavo, lui non vedeva. Borges  aveva una faccia da bambino, cme se la sua vecchiaia lo avesse fatto regredire nel tempo. Mi disse subito che il progetto non lo interessava, che io parlavo di macchine, computer, ma che lui non sapeva nenache che cosa fosse un televisore. Mi consiglio’ di levare macchinari dal mio testo, proponendo quindi di ritornare ai suoi racconti cosi’ come lui li aveva scritti. La chiaccherata sul mio progetto duro’ cinque minuti ma passammo poi un paio d’ore a parlare delle cose piu’ disparate. Della guerra di secessione americana, quella si’ che era stata una guerra con un milione di morti, del fatto che lui non era proprietario di nulla di cio’ che aveva scritto. Di letteratura che lui amava. A un certo punto mi chiese, molto garabatamente se era vero che nei “kioscos” che sono i giornalai, c’erno molte immagini esposte di donne nude. Io dovetti confermare, si creo’ un silenzio, e poi continuo’: “e come sono?” . ho dovuto glissare la risposta.  

Marco Bechis_6 July, 2009

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