“BirdWatchers” di Marco Bechis: siamo tutti indios espropriati del lavoro?
Job24 - 1 settembre
di Marco Lombardi
Ozpetek bruttino, Avati bello, “BirdWatchers” ancora di più. Meno male, perché la massiccia presenza italiana a Venezia rischiava di trasformarsi in una Caporetto, rendendo felici i tanti franchi tiratori tout court del cinema nostrano. Non solo: anche “BirdWatchers” parla di lavoro, eccome se ne parla. La storia sembrerebbe essere lontana, non appartenerci, oppure non appartenerci più, visto che il film racconta la difficile situazione degli indios brasiliani, espropriati dalle loro terre, sfruttati dai fazenderos, costretti in minuscole riserve, indotti ad abbandonare la propria cultura e le proprie tradizioni in luogo del modello occidentale.
Eppure … v’è mai capitato d’arrivare in ufficio, la mattina, e trovare qualcuno seduto dietro la vostra scrivania? Magari era il vostro capo, oppure un collega, a volte addirittura un amico … ma ci scommetto che quella sensazione d’esproprio indebito l’avrete provata, eccome se sì. Ecco, in quel momento, anche se in giacca e cravatta e scarpe lucide, oppure in tailleur e trucco sugli occhi e calze velate, quello che gli indios brasiliani provano da decenni e decenni e decenni l’avete sentito per una frazione di secondo pure voi. Garantito.
Il film (di Marco Bechis, quello del terrificante e bellissimo “Garage Olimpo”) è pura fiction, d’accordo, ma si serve di veri Indios per rappresentare la realtà dei veri Indios.
Sottolineati il rigore e la pulizia di questa scelta narrativa, la storia è quella di un gruppo di loro che, a seguito del suicidio di tre ragazzi, decide di spostarsi, ponendo le proprie tende a ridosso di una fazenda che occupa un’area ora disboscata, ma un tempo appartenuta e custodita dai propri antenati. Il motivo non è soltanto economico, bensì antropologico: solo riappropriandosi delle terre degli avi sarà possibile riappropriarsi della propria identità, lavorando-progredendo-procreando. Anche i bianchi rivendicano tre generazioni di vita e sfruttamento di quelle aree … ma di fronte a questa frase il capotribù, mettendosi in bocca e deglutendo una zolla di terra, farà capire al bianco dinnanzi a lui quanto il suo diritto sia immensamente più grande.
Oltre al tema dell’esproprazione lavorativa tout court, il film lancia un grido d’allarme sulla scellerata (e globalizzata) industrializzazione delle terre di tutto il mondo, a partire dal disboscamento del Brasile. Se a noi basta vedere che sulla nostra scrivania manca una biro/un blochetto di post-it per rivendicare i nostri beni, perché non facciamo lo stesso quando qualcuno di noi occupa gli spazi comuni del pianeta, deturpandone natura e civiltà?
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