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La riscossa dell’indio

NonSoloCinema - 2 settembre

stampa italiana

di Nicola Cupperi

Siamo nel pieno della regione del Mato Grosso, in Brasile. Qui i ricchi fazenderos suggono un’immensa ricchezza da sterminati campi coltivati e immensi pascoli. Gli indios, invece, sono costretti, per portare il cibo in tavola, a fare da esotica attrazione di divertimento per i ricchi turisti ospiti della fazenda intenti a darsi al “birdwatching”.

Tra la popolazione india il malcontento è in continua crescita, il vivere nella riserva è sempre più insopportabile; soprattutto per i giovani i quali, in alcuni casi, consci di un avvenire teoricamente già scritto e privo di lieto fine, optano per la soluzione più semplice e terribile: il suicidio. Proprio il ritrovamento di due ragazze poco più che adolescenti, impiccatesi nella foresta, spinge il capo della comunità, Nadio, ad abbandonare la riserva per tentare di riprendersi le terre che erano appartenute ai loro antenati, quegli appezzamenti di terreno dove, quando ancora c’era la foresta, gli antichi indios vivevano e venivano seppelliti. Nadio, quindi, si accampa con un piccolo gruppo ai margini della proprietà del fazendeiros Moreira il quale, dal canto suo, disprezza con veemenza gli indigeni. Proprio per questo tenta in ogni modo, appellandosi persino a un procuratore, di scacciare i finti intrusi dai suoi terreni. Quando nemmeno la strada della legalità sembra pagare, il ricco proprietario terreno decide che è l’ora di usare le maniere forti.

Un regista, un autore, un artista deve certamente essere aperto il più possibile, permeabile a variazioni e cambiamenti in corso di lavorazione, eclettico e sempre pronto. Ma il cinema, che accanto alla dicitura arte porta anche quella di industria, ha quindi tempi e modi che vanno rispettati, abituando i registi a modalità di lavorazione evidentemente (e in qualche modo per quanto possibile) istituzionalizzate. Non dev’essere stato facile, quindi, seppur molto interessante e stimolante, per Marco Bechis trovarsi a dover riscrivere praticamente da zero e in corso di lavorazione la sceneggiatura del suo ultimo lavoro, Birdwatchers. Anche per questo, e per avere la possibilità di girare per sei mesi senza problemi, l’autore italocileno ha deciso di essere il produttore di se stesso: molti problemi in meno.

Non si riusciva ad ammirare il nome di Marco Bechis nei titoli di testa di un film da ben sette anni, da quando, cioè, nel 2001 non portava a termine la coppia di capolavori che gli ha dato grande successo di critica: Garage Olimpo e Figli/Hijos. Da allora l’eclettico artista ha studiato e ha preparato la sua trasferta nel Mato Grosso, ha creato i contatti con una tribù di indios, li ha “addestrati” alla recitazione e li ha messi finalmente davanti alla macchina da presa. Scelta più che coraggiosa quella di Bechis, che consegna nelle mani degli indigeni brasiliani il suo intero film. L’attore uomo bianco, infatti, ha in questa pellicola un’incidenza decisamente collaterale. Claudio Santamaria ad esempio, pur essendo il primo nome ad apparire nei titoli di coda e insieme a Chiara Caselli uno dei pochissimi attori professionisti, interpreta un personaggio decisamente escluso dalla centralità della pellicola. Sembra quindi che Bechis abbia girato una pellicola che ricorda, pur con debite e ampie differenze, l’esperienza di docufiction che caratterizza la poetica di un autore come Jia Zhangke. Se il cinese, però, ha chiaramente una predilezione (e un talento) per l’aspetto più documentaristico del suo ibrido, Bechis tende maggiormente verso il lato finzionale: pur servendosi di attori che vivono ogni giorno la situazione che stanno recitando, l’autore li immerge in un plot dalle dinamiche note ma narrative.

Il risultato, comunque, è una sceneggiatura esile e quasi pretestuosa, una semplice miccia per dare il via a una carrellata di immagini potenti e belle, evocative, a volte quasi perfette. Bechis ha una confidenza invidiabile con il mezzo cinematografico, dimostrando di saper utilizzare il linguaggio e la sintassi proprie del cinema in maniera stupenda, come pochi al mondo sono in grado di fare. Non un solo piano è privo di senso, sia preso da solo che contestualizzato col piano precedente e quello successivo; non un solo stacco di montaggio è lasciato al caso. Non un singola sbavatura è lasciata filtrare: occhi e mente vanno in estasi, anche se il cuore forse rimane un po’ freddo.

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ufficio stampa_3 September, 2008

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