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Storia di giustizia e di riscatto nella terra degli uomini rossi

La Repubblica - 2 settembre

stampa italiana

di Adriano Sofri

Il fazendero bianco raccoglie un pugno di terra e la mostra al capo del “movimento” indio. Questa terra è mia, gli dice. I miei la possiedono da sessant’ anni, da tre generazioni. Io sono nato qui, qui è nata mia figlia. Il capo lo ascolta, poi si china lui a raccogliere un pugno di terra, e senza dire una parola la porta alla bocca e la mangia. Il capo si chiama Nadio, è un uomo di mezza età, è forte e ha le sue debolezze. Beve, e si fa trovare ubriaco in un momento cruciale. Si ricorda che in quella terra la sua gente abitava, e che allora tutto era foresta: Mato Grosso, la Grande Foresta. Ora è spianata, la sua gente vive nella riserva, lavora mal pagata per qualche fazenda, a servizio le donne, tagliatori di canna gli uomini, beve, si lascia truffare dai bottegai. A volte fanno da comparse, nudi e dipinti e armati d’ arco e frecce, per gli avvistamenti di qualche turista. Così comincia Birdwatchers di Marco Bechis, e fa temere che sia un documentario, e invece ride di certi documentari. Ci sono moltitudini di mucche, le mucche non c’ entrano con l’ Amazzonia. Lo sciamano brontola: il giaguaro è pericoloso, il cobra è pericoloso, dice, ma il cobra e il giaguaro sono nostri amici, la mucca è nostra nemica, non bisogna mangiarne. Nadio e i suoi decidono di uscire dalla riserva e accamparsi nella terra degli avi dopo un ennesimo suicidio: due ragazze delle loro, che se n’ erano andate a cercarsi un’ altra vita, il cellulare il braccialetto le scarpe coi tacchi, si sono impiccate. La vicenda va dentro e fuori dal bordo fra la spianata brutale e un avanzo di foresta. Nella foresta i giovani si impiccano. Osvaldo, il figlio della libera Lia e nipote di Nadio, vede in sogno il futuro. Vede le persone che si perdono. Lo sciamano gli insegna a pregare e cantare. Osvaldo e Ireneu sono amici, vanno insieme a caccia, non c’ è quasi più niente da cacciare: una mucca del padrone, tutt’ al più. Ireneu vuole bene a Osvaldo, è in soggezione per i suoi sogni, ha i capelli ossigenati e il desiderio di un amore. Mami, la bella del loro gruppo, gli dice che è troppo piccolo per lei. Il grande Nadio, suo padre, gli dice la stessa cosa. «Ma io crescerò», protesta Ireneu. Va a lavorare per qualche giorno, con quello che guadagna non compra cibo per la famiglia, va a comprarsi un paio di sneaker, torna da suo padre con quelle ai piedi, Nadio lo insulta. Lo sciamano rimprovera Nadio, devi parlargli più dolcemente, dice, è tuo figlio, un giorno avrà il tuo posto. Non succederà: portano a Nadio una scarpa nuova di Ireneu, che si è impiccato nella foresta. Nadio lo seppellisce e lo lascia, bisogna lasciare i morti che hanno voluto fare di testa loro, ma questa volta lui e i suoi si spogliano e si dipingono i visi e imbracciano gli archi per fare la guerra all’ occupante. Arrivano gli altri, si distribuiscono nella terra. Il procuratore li invita ad aspettare, che la giustizia si pronunci. I fazenderos temono di perdere - «gli dai una mano e si prendono il braccio» - comprano uno degli uomini di Nadio, uno che è stato respinto da Lia, mandano dei sicari, assassinano Nadio. Osvaldo si dipinge di nero, e va alla residenza del padrone che sta squagliandosela, lo accusa, lo insulta, insulta la sua figlia adolescente, con la quale ha avuto un amore, promette che lo ritroverà. Poi, cacciando un grido animalesco di vendetta e di dolore, va nella foresta, si mette il cappio al collo, e decide che non si ammazzerà. Torna dai suoi, torna sulla terra spogliata che era e sarà la loro. Non passa giorno senza che i buoni giornali riferiscano della devastazione dell’ Amazzonia, di lotte ardite e repressioni criminali. Gli “indios”, si dice, non resistono all’ urto della modernità: e non ci si accorge di chiamare modernità la sopraffazione, l’ assassinio, la mortificazione e la distruzione della bellezza. I “bianchi” che bruciano e radono la foresta, importano il bestiame, riempiono superfici immense di piantagioni da etanolo, assoldano sicari e falsificano documenti di proprietà, sono antichi, completano un lavoro di secoli. Gli “indios” sono moderni, parlano la propria lingua e quella degli altri, sanno correre in moto e a piedi nudi, vedono i padroni assassini di nativi e missionari e le donne dei padroni appassionate di birdwatching ed esitanti. Lasciano, i padroni, un loro scagnozzo con un camper e una pistola e l’ incarico di vegliare sui ribelli, «come uno spaventapasseri». Non li conoscono, non abbastanza, non si aspettano che siano intelligenti e coraggiosi, e che abbiano un loro Dio col quale consigliarsi. Le donne Guaranì sanno che i bianchi hanno una specie di smania sessuale, scherzano sul loro pisello lungo, sfottono la loro foia e i loro deliqui sdolcinati. Tuttavia la storia non è quella del buon selvaggio e del bianco cattivo. È una storia di giustizia, di riscatto. C’ è una bellezza della terra, che gli uni rimpiangono, e gli altri schiacciano, salvo estrarne dei campioni, una riserva per gli indios, una per i pappagalli e gli ara. Le comparazioni che attraversano i secoli sono arrischiate, ma questa è storia di oggi, e provate a paragonarla con la nostra schiuma alla bocca per «gli stranieri che ci invadono e vogliono comandare a casa nostra». Marco Bechis è molto bravo. Il suo film è commosso, non calpesta mai la riga, è commovente. Lo sapevo, aveva fatto un film sulla Patagonia, un film di vento e filo spinato, “Alambrado”. Ha fatto due film sull’ Argentina della tortura e sui figli dei desaparecidos. Il nome di garage Olimpo è diventato proverbiale. Questa volta i suoi Guaranì-Kaiowa non sono se stessi e non sono attori, o piuttosto sono le due cose insieme, risultato arduo da ottenere. Racconta Bechis di aver usato Hitchcock e Sergio Leone per mostrare loro il rapporto fra il cinema e i silenzi, senza di che avrebbero creduto che recitare in un film volesse dire non stare mai zitti. Ci sono inquadrature distanti, le più toccanti, che servono a mostrare com’ è grande la terra e piccoli gli uomini, e come la smania dei signori della soia voglia spiantare dalla terra le ombre. Gli indio vedono le ombre allungarsi e accorciarsi al fuoco della notte, le spiano nella foresta, gli spiantatori, gente senz’ ombra, risparmiano in mezzo a un deserto assolato una reliquia di alberello, per celebrarsi meglio. La forza del film sta in una storia così avvincente e vera che non ha bisogno di nobilitare né di essere nobilitata dalla causa civile con cui solidarizza, specialmente con i volontari di “Survival”: il diritto all’ eredità della terra delle popolazioni native. Sta al centro della storia, senza diventarne un assunto ostentato, la questione dei suicidi. 517 suicidi di Kaiowa-Guaranì in vent’ anni, fra loro una bambina di nove anni, Luciane Ortiz: su una popolazione di 30-40 mila persone. Non sapevo che i suicidi di giovani fossero epidemici fra i nativi brasiliani. Non lo sapevo, in verità, nemmeno per i giovani di Scampia. Conosco luoghi di suicidio contagioso, come il carcere, di futilità e disperazione. Ma è un fatto che il suicidio non strettamente personale segna terribilmente la nostra epoca: come nell’ impressionante sequela di suicidi di contadini poveri indiani, decine di migliaia in dieci anni, per impiccagione, o dandosi alle fiamme o, esemplarmente, avvelenandosi di pesticidi. (Sulla terra di quegli indiani indebitati come su quella dei ragazzi Guaranì c’ è una stessa etichetta transgenica: “Monsanto”). E però la mutazione umana dei cosiddetti kamikaze ha sfigurato la stessa immagine del suicidio, facendone un accessorio della strage d’ altri e una delirante prenotazione dell’ aldilà. Fragilità e nobiltà del suicidio ne sono entrambe colpite. E sembra aver trionfato l’ idea supremamente fanatica - quella dei Demonii - per cui se non si faccia più alcun conto della vita e si decida di togliersela, la si devolva almeno a qualche buona causa, com’ è la morte di un nemico… Il suicidio di una giovane o di un giovane Guaranì è una resa e una protesta, suscita pena e rispetto: ma la decisione di non suicidarsi è bella e importante quanto quella di una ragazzetta di Baquba che alla fine rifiuti di farsi saltare con la sua cintura di esplosivo. I Kaiowa-Guaranì hanno augurato pochi giorni fa ai loro fratelli dell’ estremo nord dell’ Amazzonia, impegnati in una strenua vertenza contro i latifondisti alla Corte suprema, di vivere in una terra “libera, in pace, solidarietà e allegria”. Libertà, pace, solidarietà, sono parole che si accordano male col nome dei latifondisti, ma ancora di più stride quella: allegria. Avrete anche visto zingari e indii yanomami felici. Conoscete un latifondista allegro? -

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ufficio stampa_13 September, 2008

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